I SENTIERI DELL' ANIMA

I SENTIERI DELL’ANIMA “



Per sfuggire alla consuetudine dei miei giorni mi affaccio, talvolta, a questo lembo di mare. Mi siedo sulla riva e lascio che lo sguardo si posi sulla più lieve delle onde e si faccia trasportare sino a raggiungere l’ orizzonte, dove posso finalmente accarezzare l’ agognata montagna. Ma la mia è un’ illusione, soltanto un’ illusione che ogni tanto, solo ogni tanto, prende forma e si trasforma in realtà.
Il sale brucia su queste mie ferite ma il vento di Nord-Est le asterge ed è sempre Lui a distogliermi e il suo impeto ad invitarmi dove la natura è più consona al mio anelito.
Sfioro così il bianco calcare e mi concedo, io piccolo punto variopinto abbracciato alla grande parete, attimi fugaci di una recondita passione. Arrivato in fondo alla “ via “ riscopro i miei passi perdersi fra i colori di una montagna ancora più viva, fra quei colori che sanno tanto di pace, di serenità, di solitudine, fra quei colori che sanno d’ infinito. E in quell' infinito i miei pensieri possono librarsi e disegnare persino un altro mondo, un mondo fantastico del quale al mio spirito è concesso far parte. E di ciò io comune mortale approfitto, colgo l’ attimo per fuggire il presente e materializzarmi nel nuovo mondo. In esso e da esso mi lascio guidare lungo i Sentieri dell’Anima .
Chissà se le Divinità di questo nuovo mondo, così immenso e così lontano, del quale mi trovo precariamente a far parte, avrebbero accondisceso a che io salga sin lassù per ammirare la grandezza della Terra proprio dal suo punto culminante? Ma se così fosse avvenuto non avrebbe senso ora, qui, il mio dire, il mio parlare di uomo qualunque.
Perché salire lassù? Forse per cogliere con un solo sguardo tutto il bene e il male del mondo… O per sentire amplificata l’ eco degli spari di milioni di guerre che alimentano interminabili fiumi di lacrime… Per poi tendere un’ improbabile mano a chi ha bisogno di molto meno e si ritrova con niente di più.
Perché salire lassù? Forse per vedere il mondo, cercare di capirlo già sapendo di non poter far niente per cambiarlo… O semplicemente per avvicinarmi di più a Dio e potergli sussurrare quel desiderio infinito che anche il grido più straziante non riesce a palesare…
Ma perché carpire l’ immenso quando già il nostro piccolo è così difficile e talvolta impossibile da trattenere?
La voglia di avvicinarmi a sfiorare il cielo è tanta ma il senso di questa mia presenza si ferma molto più in basso, dove il mio essere si ritrova nel reale e la dimensione è a misura della mia persona e delle mie aspirazioni.
I Sentieri dell’Anima mi portano in alto, tanto in alto, dove il sole ogni mio sguardo abbacina, il vento le mie parole disperde e il gelo le mie sensazioni annulla così da sembrarmi tutto smisuratamente grande e allo stesso tempo infinitamente piccolo.
I miei passi si perdono nel profondo delle valli dove tumultuose acque scolpiscono da millenni una preghiera infinita. Ma anche fra le tormentate e tormentose rocce che più grandi, insidiose e insormontabili sembrano all’occhio di colui che sempre più in alto vuole giungere. Ed è proprio fra quei sassi che dapprima indugia e alfine passa la mia sfrontatezza.
Mi ritrovo a camminare nel colore intenso di un fiore antico che ivi aspetta la luce di un nuovo giorno per confondersi fra i riflessi di una secolare purezza da passi ignoti ormai oltraggiata.
Il mio incedere si sofferma all’ interno di quelle dimore tanto misere quanto umili, dove le preghiere delle donne colmano la vacuità dell’attesa: per il loro uomo lontano, per il duro lavoro, per la precaria salute dei figli, per tutto il loro vivere.
Mentre attraverso silenziosi villaggi e scambio un saluto, quel dolcissimo namastè dal significato così misericordioso: Saluto il Dio che c’è in te, con le mani giunte ad accentuare quella forma di così grande riverenza o mentre stringo una mano, andando incontro alla sincera naturalezza di queste genti nel contraccambiare quella che forse per noi è soltanto mera curiosità sono affascinato dalla serenità e dalla grandezza d’ animo di questo popolo povero. E’ veramente gente splendida che pur nella consapevolezza della loro miseranda esistenza sa regalare sempre il sorriso più grande facendoci così involontariamente capire quanto arida sia a volte la nostra vita.
Mi soffermo ad ammirare estasiato la paradisiaca bellezza di Thyangboche, un villaggio, poche case incastonate nel granito al cospetto del sacro Ama Dablam, dell’ immane Lhotse, dell’ irraggiungibile Everest. Thyangboche col suo monastero, ricostruito dopo l’ incendio che nel 1989 l’ aveva completamente distrutto, il suo Rimpochè, i suoi riti e i mantra scanditi dai monaci e scolpiti da mani preziose su uno dei paesaggi più immensi. E’ il mio cuore a indugiare su questi passi.
Ed è sempre il mio cuore ad indugiare davanti all’ intimo significato di quelle preghiere eterne scritte e riscritte sulle bandierine che garriscono ai venti himalayani appese ai tarscho. Quelle preghiere eterne scolpite sui muri mani eretti a formare un rosario continuo affinché la sosta del devoto viandante assuma il significato di un rito perpetuo.
Diventando inevitabilmente partecipe di questa palpabile religiosità e di questo pellegrinaggio senza fine mi attardo talvolta a sfiorare cilindri di preghiera disposti ad arte lungo il cammino, come pure i vari chorten che incontro e che, nel rispetto delle regole buddhiste , supero lasciandoli alla mia destra.
Questi, questi e ancora altri, tanti altri sono i sentieri che la mia anima ha percorso in questo nuovo mondo.
Con le sembianze di uomo, il mio spirito si è insinuato nella natura di questa gente cercando di capire il significato del loro vivere. Ma la presenza della mia facoltà vitale viene tradita dalla mia goffaggine di trasgressore. Tuttavia tale è l’ innocenza dei miei intenti che mi viene concesso di entrare in contatto con il loro essere. Una volta entrato in questa nuova dimensione è il cuore ad accompagnarmi lungo altri e ben più erti sentieri: quelli dell’inconscio. E inconsciamente mi ritrovo a respirare un’ aria che non è la mia, un’ aria permeata di misticismo che mi permette di travalicare qualsiasi espressione di vita e creare così attimi eterni. E questi attimi così palpitanti si trasformano in splendidi ricordi per assecondare, in seguito, il mio mesto ritorno.
Per noi compagni di viaggio, che seppur scevri di alcuna oppressione ci trasciniamo stancamente lungo questi sentieri, quell’ uomo minuto che carica le sue bestie dei nostri bagagli, altri non è che l’Uomo degli Yak. Non ci lasciò nemmeno il suo nome ma tutta la sua premura nel servirci, la sua grande disponibilità, la semplicità del suo essere, l’ amore per i suoi animali…Rimane il ricordo di un uomo straordinario come sanno essere gli sherpa.
Sherpa, Gente d’Oriente: forza, tenacia, umiltà, abnegazione, doti non comuni messe a disposizione degli altri prima che di se stessi. E pensare che per l’Uomo degli Yak quei 5 dollari di paga giornaliera significano poter regalare alla vita sua e della sua famiglia ancora qualche brandello di speranza.
Il nostro sirdar, affabile e gioviale, pure lui molto disponibile , è sempre più avanti di tutti noi, per prenotare i nostri posti nei lodges, per la notte. Una volta soltanto rimane indietro, quando favorisce la mia lenta ascesa al punto culminante del nostro trekking. Il mio grazie biascicato e il suo sorriso compiaciuto per una soddisfazione reciproca.
Ogni volta che incontro dei bambini, il pensiero mi riporta a casa, ai miei figli, ai loro capricci e alle loro agiatezze. Qui non ci sono agiatezze e tantomeno capricci. I bambini più fortunati sono quelli che sopravvivono. Li vedo giocare spensierati come tutti i bambini del mondo, ma li vedo anche correre scalzi nel fetido fango della città da dove emergono sorci morti che fanno compagnia a chissà che altre sozzure. Li vedo piangere per una ferita e sorridere per uno scherzo; chiedere bon-bon o peggio ancora money ma ringraziare ossequiosi, sempre, anche se talvolta rimangono delusi al nostro diniego. Li vedo sporchi, tanto sporchi e con i vestiti laceri. E poi li vedo tutti belli e tutti puliti, ma dentro di sé, con l' animo sereno e tanta voglia di vivere.
La Dea del Turchese, il Cho Oyu, chiude verso Ovest la Valle di Gokyo. Questa incantevole valle creata dallo scorrere del Dudh Kosi, il Fiume del Latte, regala sensazioni intensissime che si specchiano nelle acque dei suoi laghi, perle di rara bellezza incastonate nel grigiore della morena. Anch' io mi specchio nella calma piatta del Dudh Pokhari e quello stanco riflesso altri non è che l’immagine di un uomo che si è perso in qualcosa di inusitatamente grande.
L’incredibile tormento del Ngozumba Glacier, un continuo rincorrersi di sassi e ghiaccio che perennemente si trascinano lungo la sua vastità. E’ grigio questo ghiacciaio come grigia è questa giornata, come grigi sono i miei pensieri che ormai quassù a 5000 metri si mescolano all’ incipiente nevicata.
La Dea Madre della Terra, Sagarmatha per i nepalesi, Chomo Lungma per i tibetani: 8848 metri di sogni, di speranze, di sofferenze, di rimpianti, di vittorie e di sconfitte, di tragedie, di desiderio, quel desiderio che nessun alpinista sa mai spiegare e nessun uomo comune sarà mai in grado di capire. Guardare quel magnifico monolito sospeso nelle nuvole, guardare quella piramide di granito stando 3000 metri più in basso è per me una forma di rispetto non solo per l’ Everest , ma per la montagna tutta che tanto dà e, se te ne approfitti, anche tanto toglie. Io non sono un alpinista, il mio 6° l’ ho trovato a 5600 metri e con tanta fatica.
L’ emozione del ponte sospeso, traballante e insicuro al di sopra del baluginare di tremendi flutti. Questo congiungere le due sponde del fiume sembra, ogni volta, un tentativo di unire due cose simili e allo stesso tempo dissimili; unire due mondi, o due pensieri, o due cuori, o due anime. Il ponte è il collegamento reale. Ogni volta che ne attraversiamo uno si percepisce l’ impalpabilità di un qualcosa che unisce idealmente, alla fine capisco che è l’ amore: l’ amore per tutte queste piccole, grandi, semplici cose.
E attraverso uno di quei ponti mi ritrovo a camminare in città, Kathmandu, che non sembra per niente la città medioevale da me immaginata, anzi è un vero e proprio caos ubriacante fatto di gas di scarico, strombazzanti clacson, pericolose motorette, e soprattutto gente, tanta, che ti ferma ad ogni angolo e ti offre la sua mercanzia spiccia: braccialetti, berretti, flauti, tiger balm, hashish e tante altre cose. Ai bordi delle polverose strade mucchi enormi di immondizie maleodoranti attendono un improbabile asporto. Mi scontro con tante cose per me incomprensibili, strane da vedere, da sentire e assieme a tutta questa congerie c’ è il rammarico di aver lasciato alle spalle tutta la magnificenza del Khumbu e la consapevolezza che probabilmente non ci sarei più ritornato. Anche se siamo 4000 metri più in basso di ieri è qui a Kathmandu l’aria rarefatta.
Dai colori di una natura quasi incontaminata passiamo allo sfavillio di colori per niente naturali ma molto significativi di una cultura religiosa radicata che si esprime anche attraverso una simbologia molto suggestiva.
Vedo per queste strade gente dormire su dei muretti, seduti nei loro rikshò, distesi per terra, ma forse a modo loro stanno meditando, forse sognando o addirittura, chissà, pensando alla loro miserrima condizione umana che li fa vivere ai margini di questa difficile società.
In questo luogo gli induisti cremano i loro morti, qui pregano le loro divinità, qui si purificano nelle acque putride della Bagmati, ma il fiume è sacro e qui a Pashupatinath sembra quasi fermarsi e perdersi negli atavici rituali. Le preghiere, le invocazioni, come il fumo e l’odore della carne che brucia si levano in alto a raggiungere nell’infinito le deità che su questi esseri distendono la loro possente mano.
Ad ogni angolo, in ogni casa, per tutte le strade è presente questa spiritualità. Le religioni si mescolano e convivono nella comune speranza di salvezza e felicità eterna. Questa sensazione è tanto più tangibile fra le pagode di  Bhaktapur, i templi di Patan e in Durbar Square a Kathmandu e poi Bodhnath e Swayambunath da dove gli occhi di Buddha, rivolti ai quattro punti cardinali, trasmettono la profondità del suo pensiero e in essi si riflette la grandezza divina di questo paese.
Quando ti senti più in alto del solito o ti ritrovi in mezzo all’ insolito, i pensieri possono fuggire dalla tua mente e posarsi ogni dove così da regalarti immagini diverse, con sfumature che si allontanano dal presente. Allora diventa inevitabile ritrovarsi da soli in mezzo a mille persone e porsi domande dalle infinite risposte, le quali racchiudono in sé delle verità che, ai miei occhi, hanno un senso soltanto per quelle mille persone. I tentativi di entrare mentalmente nel vivere di questa gente mi si sono rivoltati contro e, ritornato alla razionalità devo combattere le conflittualità derivanti dalla mia intrusione. Sì, perché alla fine ti senti proprio un intruso e ti accorgi di aver portato via qualcosa di non tuo, privando qualcun altro di una parte di se stesso.
Mi sono illuso di fuggire la vacuità della mia consuetudine materializzandomi in questo, per me, nuovo mondo ma questa realtà fa rimbalzare i miei stati d’ animo, relegandoli alla fine in un contesto interiore ancor più angosciante.
Domani, quando tornerò a baciare la mia donna e abbracciare i miei figli, saranno sufficienti l’ immagine più bella e il ricordo più caro per farmi sorridere o avrò ancora bisogno di sognare?
Di sicuro la mia esistenza si consolerà con le sensazioni più vive riposte in fondo al cuore prima di concludere questo stupendo viaggio lungo i Sentieri dell’Anima.
Mentre l’ aereo della Royal Nepal Airlines si alza in volo dalla pista principale dell’ Aereoporto Thribuvan, il mio ultimo sguardo è per questo Paese e per la sua Gente che rapidamente si allontanano dalla mia vista ma non certo dal mio cuore.
Mentalmente ringrazio il Nepal per aver riempito la mia anima della grandezza del suo spirito.
Ringrazio il Himàlaya che con la sua maestosità ha fatto crescere il mio piccolo cuore.
Un grazie va al Khumbu che con la bellezza dei suoi colori ha ridipinto la mia vita.
Non posso non ringraziare quelle due “colline “ di 5500 metri la cui salita mi ha fatto ricordare che io non sono di questo mondo e l’ immensità del paesaggio goduto dalla cima per avermi lasciato piangere mentre il mio pensiero andava alla mia famiglia.
Kathmandu è ormai dietro le alture che la cingono, l’ aereo è diretto a Nuova Delhi, il mio sguardo è diretto ai miei compagni di viaggio. Sì, un grazie va anche a loro: grazie amici per questi giorni indimenticabili e per il vostro grande cuore.
Ecco, adesso sono anch’ io a 8848 metri in mezzo al cielo fra le nuvole, con la carezza del sole pomeridiano e il saluto lontano delle montagne… Montagne non più così grandi come le vedevo ieri, perché c’ è qualcosa di ancora più grande, di ancora più alto… Grazie, Dio, perché mi hai fatto restare uomo e perché io, comune mortale, ce l’ ho fatta.

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